Asociación para el estudio de temas grupales, psicosociales e institucionales

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Il difficile percorso di una identitá. A. Fochi


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Il difficile percorso di una identità

Ave Fochi 

 

Primo Periodo

Per parlare della “Attualità della Concezione Operativa di gruppo” prendo come spunto un caso clinico di un bambino adottato mediante Adozione Internazionale da una famiglia del Nord Italia nel 1991. Il bambino, che allora aveva 7 anni, fu adottato da una coppia che aveva già due figli propri:  una bambina della stessa età dell’adottato ed un maschio di 12.
In quel periodo lavoravo presso i Consultori Familiari, quando dovetti fare l’indagine di valutazione della coppia che aveva inoltrato la richiesta di adozione Internazionale, su incarico del Tribunale per i Minorenni. Ottenuta l’idoneità dal T.M. la coppia si recò nel paese di origine del bambino e lo portò con sé in Italia.
Seguii tutto il periodo di affido preadottivo, mediante colloqui con il gruppo familiare, per la durata di 18 mesi, anziché 12, come previsto, in seguito a difficoltà insorte durante tale periodo, al termine del quale la coppia decise per l’adozione.
La situazione,sia nella fase preadottiva, sia successivamente all’adozione, è stata più volte affrontata e discussa in supervisioni d’équipe con un supervisore esterno, data la complessità della problematica.
 

Ambito individuale

Il bambino, che per comodità chiameremo con un nome di fantasia, Marco, aveva un aspetto gradevole, era vivace ed intelligente, tanto che attirava l’attenzione e la simpatia.
Si inserì immediatamente nel nuovo contesto, imparò a muoversi per la città, ed imparò talmente in fretta la lingua italiana da sembrare la sua lingua materna.
La eccessiva facilità con cui Marco si inseriva nel nuovo contesto e nella nuova Comunità (1), colpiva la nostra attenzione, anche perché non lasciava intravedere, (almeno nei primi tempi ) nessuna difficoltà.
In quel periodo prevalse un super adattamento, una adesione indiscriminata a tutto ciò che era nuovo, o appariva come tale a Marco nella mutata situazione. Provava a sperimentare ed  “assaggiare” tutte le novità, spinto da una forte curiosità di conoscere, ”introducendo” dentro di sé, tutto ciò che apparteneva al nuovo ambiente.
Parallelamente appariva “spericolato”, senza limiti e difese, proteso nel desiderio di affiliazione al gruppo familiare adottivo, alla città, nel nuovo paese. Appariva cancellata la sua storia, le sue origini ed i suoi ricordi, proprio come la sua prima lingua.
Accanto a questo processo di assimilazione e di adattamento, a discapito di un forte annullamento di parti di sé e delle proprie esperienze ( prezzo che forse Marco pagava per essere accetto dalla famiglia e dagli altri) emergevano alcuni piccoli ed impercettibili segni di malessere, di estraneità: discrepanze che era impossibile annullare, ma emergevano, via via che il tempo passava, in maniera più incontrollata e imprevedibile.
Quasi a conferma di questo citiamo, per esempio, i disegni che Marco faceva nelle sedute familiari. Essi ci apparivano diversi da quelli di altri bambini, molto colorati, con degli accostamenti del colore originali (almeno così  apparivano a noi) ,originali e differenti rispetto alla nostra consuetudine. Sentivamo di avere di fronte una cultura diversa, che ci richiama alla mente un altro paese e le sue caratteristiche sociali e culturali. Mescolava il giallo, l’azzurro con il verde in maniera naturale, proponendoci un suo gusto, un suo stile e contemporaneamente, a noi, un altro sguardo sul suo mondo.  Noi operatori ci immaginavamo che quei colori e quegli accostamenti non solo riflettevano il suo mondo ma li sentivamo suggestivi e misteriosi poiché ci riportavano in un altro posto, al ritmo, alla luce, ai suoni, all’aria, al clima, a tutto ciò che simbolicamente egli ci trasmetteva inconsciamente attraverso la relazione con noi.


Ambito familiare - Ambito Istituzionale –Ambito Comunitario

Nonostante i suoi sforzi le cose non andarono bene. I genitori lo inserirono in una scuola privata di Suore durante gli ultimi due mesi di Scuola. Si crearono,ovviamente  dei problemi e l’anno successivo cambiarono scuola. Durante le lezioni mostrava irrequietezza, usciva dalla classe, per andare a cercare un suo amico in un’altra classe. Gli fu assegnata un’ insegnante di sostegno che lo teneva sempre fuori dalla sua aula. Si creò tensione, malumori tra gli insegnanti ed i genitori degli altri bambini. Considerato un bambino “troppo sveglio”, precoce nelle esperienze, costituiva, nel vissuto di famiglie e insegnanti un potenziale pericolo per gli altri bambini.
Non ci furono tuttavia episodi riferiti con precisione o fatti precisi che mostrassero comportamenti realmente trasgressivi . Tutto era vago, generico, raccontato, sentito, rielaborato da più voci e più racconti.
Marco era l’elemento di disturbo, un “handicappato all’incontrario”come mi fu definito dal Prof.A.J.Bauleo durante una supervisione, intendendo con tale espressione che le capacità cognitive del bambino non venivano adeguatamente percepite, e per questo,   tutti contribuivano inconsapevolmente a relegarlo in un ruolo al disotto delle sue possibilità. L’irrequietezza era non solo  e non sempre un segno di disagio, ma era anche sua precipua caratteristica: n classe non rimaneva al suo posto, si alzava, era irrequieto;  proprio per il fatto che molto spesso siamo più preparati per affrontare le mancanze, o le carenze che producono un handicap, piuttosto che la rapidità nell’apprendimento o la maggiore estroversione a livello relazionale, questi suoi comportamenti erano giudicati nella maniera più negativa.
Uscire dalla classe era pertanto interpretato solo come elemento di disturbo: segno o sintomo di psicopatia, di rifiuto delle regole piuttosto che segno di una diversità riconducibile ad una situazione e ad un’insieme di relazioni rigide e stigmatizzanti.

La famiglia adottiva iniziò a vivere con grande ansietà tutto questo. La madre viveva   come rimproveri personali  le cose negative commesse ogni giorno dal bambino. Si sentiva giudicata una “persona incapace” di educare il nuovo arrivato. Non ci fu tempo per riflettere adeguatamente sui problemi; la famiglia “passò all’acting ”, iniziò ad agire per tacitare le proprie ansietà, senza discutere neppure con noi le decisioni da prendere, finendo ogni volta per vivere, oltre all’ansietà anche sentimenti di frustrazione e di rabbia. 
Le discussioni familiari aumentarono e di questa tensione fu accusato Marco. La madre iniziò a dire che tutto era cambiato da quando lui era arrivato e che la pace era finita da quando lui era entrato in casa.
Iniziarono a crearsi maggiori tensioni e problemi: la famiglia non riusciva a tenerlo, si creò un clima conflittuale tra i genitori ed una forte rivalità tra i due fratelli maschi.

Anche gli operatori iniziarono a convincersi che il bambino era molto disturbato e che i suoi comportamenti erano pericolosi. A conferma di ciò si disse che la famiglia gli aveva trovato un coltello tra i giocattoli e ad insinuare un rischio per la sorella .
Si aprirono delle divergenze tra gli operatori: io ed il mio servizio pensavamo che fosse necessario continuare nell’intento di aiutare la famiglia ed il minore nel processo di integrazione, altri iniziarono a sostenere i genitori adottivi colludendo con  loro nel processo di espulsione del minore, anziché aiutarli nella elaborazione delle difese.
Anche noi rimanemmo soli ed inascoltati dagli altri professionisti, rifiutati per avere sostenuto le difficoltà del più debole. La famiglia ascoltò il consiglio a lei più favorevole in quel momento, non ci contattò più.
 
Contemporaneamente noi operatori che lavoravamo nel Consultorio familiare non ci potemmo più occupare della situazione poiché, da un lato non era più nostra competenza, dall’altra intervennero altri Servizi di altre Istituzioni, Minori, Neuropsichiatria Infantile, Assistenti Sociali, Specialisti della Famiglia di altre città, concordarono con la ipotesi che tale bambino doveva entrare in Comunità per minori. Tutti conoscevano qualcosa della situazione, tutti avevano visto qualcosa, tutti avevano sentito dire, tutti chiedevano qualcosa. Si creò un’ interesse generale ed un movimento collettivo a livello di Comunità, in cui si mise in atto un meccanismo di depositazione di ansie psicotiche e confusionali nel quale il bambino “tanto carino” che faceva sentire tutti tanto buoni nel tendergli una mano, improvvisamente si era trasformato in un diavolo  in grado di manipolare tutti con la sue furbizie. 
Il processo di espulsione, una volta innescato fu rapido, violento e inconscio..
Potremmo dire che coinvolse tutto l’ambito comunitario, attraverso i propri rappresentanti: famiglia, scuola, servizi, specialisti,ecc.,. .Strano che non si fosse pensato o fosse stata scartata la possibilità di trovare una famiglia affidataria, o ad una famiglia di sostegno… molto strano…...   forse che la comunità l’avesse già inconsciamente escluso come persona.


Contesto e Schema di Riferimento

Oltre alla nostra équipe che si è occupata direttamente del caso, molte persone della città, operatori e specialisti del pubblico e del privato, ma anche molte altre persone, rappresentanti di istituzioni, conoscenti, amici della famiglia, associazioni,comunità parrocchiale, si interessarono del caso, mossi da interesse, curiosità, o da esplicita richiesta dei genitori.
Tutte queste persone, a loro volta parte di gruppi di lavoro istituzionali,di associazioni di familiari, hanno contribuito, loro malgrado, a creare un clima di attenzione, ma anche di ansietà e di sospetto, alimentando un insieme di pregiudizi e di diffidenza  all’interno delle persone che componevano la Comunità Locale. Spontaneamente venivano persone al servizio a chiederci notizie del bambino, come a verificare di persona, o a sincerarsi del grado di pericolosità. Ognuno esprimeva il suo punto di vista senza poter trovare anche con la nostra equipe una sintonia o un punto di convergenza.
Le Istituzioni scolastiche si mossero autonomamente, ma anch’esse furono paralizzate dalle difficoltà:  per esempio non si è mai potuto lavorare per concordare su obiettivi pedagogici; la famiglia stessa non riconosceva le difficoltà nell’inserimento scolastico ed imputava ogni problema all’indole ed al carattere del bambino.
Anche i genitori, su questa linea resistenziale esprimevano le loro paure affermando: ”….è abituato a vivere per la strada…non si adatterà mai alle nostre regole.” Questa frase condensa e segnala quanto la famiglia vivesse questo bambino come esterno alla “propria famiglia” o a ciò che essi consideravano famiglia. In questa frase si segnala in maniera sincretica, un punto di snodo e di articolazione di desideri e paure che sono state espresse dalla famiglia durante una seduta, ma che si rifletteranno come onde concentriche nell’acqua, attraverso l’ambito gruppale, comunitario, sociale.
Perciò il desiderio e la paura che questo bambino-estraneo potesse entrare e confondersi con la propria storia  nella vita familiare e potesse rompere la tranquillità della comunità locale, ha spinto tutti alla mobilitazione per difendere la propria tranquillità minacciata.


Segregazione ed Espulsione

Dopo sei mesi, ad adozione conclusa, uno specialista della famiglia, che lavorava privatamente, a cui furono inviati i genitori per ulteriori colloqui in un’altra città, fece una relazione conclusiva in cui si affermava che il bambino non era adatto per questa coppia.  Si sa che un parere, soprattutto se proviene da una persona che gode di qualificazione a livello professionale ed istituzionale, può avere effetti negativi ed attuare una vera e propria violenza sulle condizioni di vita di un individuo.
La conseguenza di tutti questi elementi segnalati fu la decisione di allontanare il bambino dalla famiglia. Ciò che venimmo a sapere(da mesi eravamo esclusi dal caso) fu che il bambino era stato prelevato dalla abitazione dei genitori da una Assistente Sociale, su indicazione del suo gruppo di lavoro e della sua Responsabile; portato in una struttura residenziale di Pronta Accoglienza della città, vi rimase per 15 giorni da solo, in attesa di altra collocazione che sopraggiunse, tramite un inserimento in una Comunità per minori della città.
Cercammo di contattarlo presso la Comunità, ma non ci permisero di vederlo, ci fu risposto che la nostra presenza avrebbe turbato la sua tranquillità. Questa è stata la risposta che gli educatori della struttura ci diedero, su indicazione dello Psicologo e della Assistente Sociale che seguivano il caso.
Pur disorientati da tali rifiuti, insoliti nella nostra pratica lavorativa e immotivati, fummo definitivamente costretti a non occuparci più del caso, temendo che la  conflittualità tra operatori avrebbe potuto nuocere alle decisioni prese per il futuro del minore.
Informammo il Giudice del T.M. della nostra posizione ed il Direttore della nostra Azienda Sanitaria.
In seguito il Tribunale per i minorenni emise un decreto di decadimento della Potestà genitoriale  ed il minore successivamente fu allontanato anche dalla città, per essere inserito in altre Comunità. Prima Bologna, Rimini, Milano, poi In Valtellina, ed in Toscana: rientrò a Cremona nel 2000 all’età di  16 anni. Inserito nuovamente in Comunità per minori fino al compimento del 18° anno di età.Il percorso era così concluso: come un organismo non riconosce come proprio un agente esterno e con il suo sistema immunitario lo isola e lo espelle, così la comunità si comportò con Marco: non riconosciuto come proprio appartenente, fu prima isolato, poi segregato, ed infine espulso.

 

Secondo Periodo

Dal momento in cui Marco rientra in città si riattivano vecchie problematiche con l’aggravante che in questo momento è diventato un adulto, un ragazzo di 18 anni; ed i servizi, gli operatori che lo seguono sperano in una sua autonomia. Vanno in questa direzioni gli interventi effettuati, quando viene segnalato dai servizi che lo avevano in carico al Servizio Tossicodipendenze, dove nel frattempo mi ero trasferita e dove tuttora lavoro: fu così che rincontrai Marco.
Dai primi colloqui emerse una storia triste e sempre più drammatica. Ci venne segnalato perché si era aggravata la situazione:viveva “in strada”, dormiva talvolta al dormitorio pubblico, spesso si ubriacava, veniva ricoverato per un giorno all’Ospedale in coma etilico, ma alla dimissione era di nuovo sbandato, in balia di se stesso. Spesso aveva risse violente, da cui  sono conseguite denuncie, frequenti fermi dalla Polizia, perquisizioni, botte, ecc..,. Viveva nella città, conosciuto da negozianti, baristi, guardato male da tutti, evitato o allontanato dai bar dove aveva lasciato un cattivo ricordo. Stava soprattutto con altri ragazzi, anch’essi emarginati, sbandati seguiti dai servizi sociali, anch’essi, come Marco con situazioni multiproblematiche e di emarginazione alle spalle.     
Ci viene richiesto un aiuto per un inserimento in Comunità Terapeutica. Stranamente ci accorgiamo che è riuscito a rimanere lontano da eroina e cocaina, fuma  saltuariamente  spinelli. Era visibilmente in un grave stato di abbandono, senza soldi, con pochi vestiti in un sacco nero di plastica. Tutto il suo mondo e il suo passato ora era rinchiuso in quelle povere cose.
Mi viene alla mente che forse quella era la situazione dalla quale era fuggito dal suo paese, che si ripresentava ora qua, in Italia.
Sembrava rassegnato, con un’aria mesta, aveva perso totalmente l’allegria e la ipermotilità dei primi tempi in cui l’avevo conosciuto. Aveva un aria triste, come di chi è stato “maltrattato” forse anche solo moralmente. Disse che voleva lavorare, ma erano evidenti le gravi carenze formative e la mancanza di un mestiere .
Apparve come una persona umiliata nella propria dignità con livelli di angoscia molto forti che cercava di superare ricorrendo all’uso di alcol e cannabinoidi.
Nell’arco di 15 giorni viene arrestato mentre rubava una autoradio, finisce in carcere per due mesi, altri due verranno scontati agli arresti domiciliari presso una Comunità Terapeutica per tossicodipendenti e alcol dipendenti, dove decidiamo di inserirlo.
Da quel momento ho seguito il ragazzo con continuità, anche se ero, soprattutto all’inizio titubante circa le possibilità di un suo cambiamento. Iniziai una serie rapporti di lavoro, sia interni all’équipe, che mi sostenne, con cui mi sono confrontata, e rapporti con gli operatori della comunità terapeutica.
 Il comune, che è il Servizio inviante, ci ha ” lasciato carta bianca”, ma nonostante questo lo coinvolgiamo attivamente, e dopo due anni ci sembra di osservare, quasi come di fronte ad un risultato eccezionale, che questo ragazzo, espulso da tanti posti, può ora iniziare a costruire qualcosa.
Ci furono ugualmente, anche in questa fase molte resistenze, dubbi, sfiducia da superare; non avvennero miracoli, ma un cambiamento nello schema di Riferimento degli operatori. Grazie alla memoria di questo caso, posso ora ricostruire, da un punto di vista privilegiato, i vari pezzi di storia, di esperienze, posso nominare alcune esclusioni con il loro nome e reimmetterle in circolazione per essere trasformate in domande, curiosità, dubbi, e nuovi significati     
Il Comune, attraverso i suoi operatori ha sostenuto il progetto, sia negli obiettivi sia nell’ impegno economico. Frequenti erano i contatti con il Responsabile della Comunità, gli educatori e alcuni volontari che hanno rapporti con la C.T. – L’inserimento in tale struttura non fu facile, tale era il grado di saturazione di vita comunitaria per Marco, ma riuscimmo ad instaurare un rapporto franco e sincero con lui, che ci permise di iniziare una fase di cambiamento, nonostante si scoprissero esperienze e situazioni gravi di deprivazioni sofferte da Marco durante i 9 anni trascorsi in diverse strutture per tossicodipendenti e con minori.
Ci rendemmo conto che Marco non aveva frequentato la 5° elementare, a suo dire non l’avevano mandato perché i genitori sostenevano che era più grande dell’età anagrafica. Aveva frequentato pochissimo le Medie, nonostante ciò gli era stato rilasciato il Diploma di licenza Media; non sapeva fare di conto, né scrivere,addirittura non sapeva leggere l’orologio .

Dopo pochi mesi di Comunità iniziò un percorso formativo per cameriere di sala. Per la prima volta seguì un corso di formazione con regolarità e continuità. Fece lo stage finale, ma non lo assunsero, poiché il corso era riservato a persone disabili. Ancora una volta era diverso: non era un disabile. Per tutti gli otto mesi del corso, rispettò gli orari delle lezioni, si impegnava nello studio, e si fece apprezzare sia dagli insegnanti, sia dal personale che coordinava l’attività pratica. Considerato che la sede del corso era molto distante e che ogni giorno doveva prendere due mezzi pubblici sia per andare,sia per tornare,oltre a un lungo tragitto a piedi di circa 4 Km., ha dimostrato molto impegno.
Una proficua collaborazione fu attivata con gli operatori della comunità, con i quali furono affrontate anche momenti di difficoltà divergenze ma senza il venir meno dei reciproci impegni .
Per Marco non fu un esperienza facile, soprattutto per il fatto che non era un tossicodipendente, ma si trovava in una comunità con ex eroinomani. Ancora una volta era “il diverso”, ma questa volta la diversità non era escludente, ma era affrontata, approfondita, temporanea e finalizzata in un progetto.  Nel frattempo le famiglie degli ospiti della comunità furono coinvolte rispetto alle esigenze e le necessità di Marco (necessità economiche, di abbigliamento,affettive, sociali, ricreative,ecc..,.) In particolare vi fu una coppia, con un figlio della stessa età, che lo invitava a casa propria e spesso trascorreva il fine settimana con lui. Fu un punto di riferimento per Marco, una “famiglia sostitutiva” che gli permise di riconciliarsi con la città ed il contesto di adozione.

Nel 2003 ha iniziato a frequentare l’Istituto Superiore di Agraria, nel Settore Lattiero caseario. Si tratta di una Suola, con annesso convitto, dove, a completo carico del Comune, accanto ad una cultura di base imparerà la lavorazione del latte per la produzione di formaggi.
Ha superato positivamente il primo anno e sta frequentando il secondo, con il terzo anno diventerà operaio specializzato, con i 5 anni Diplomato.
Per brevità non posso raccontare tutti i particolari, o le difficoltà che pure ci sono state, ma i risultati ottenuti, che ritengo siano stati enormi,( rispetto alla situazione iniziale), sono stati la conseguenza di un insieme di relazioni instaurate in più ambiti ed a diversi livelli. Un primo livello è rappresentato dal lavoro effettuato insieme ai colleghi del mio servizio e con i rappresentanti della Comunità prima, con i rappresentanti della Scuola successivamente: educatori, insegnanti, gruppo classe, dirigenti.
Ora possiamo dire che Marco è cambiato e sta cambiando, poiché i rapporti attorno a lui gli consentono e lo “obbligano” a fare i conti con i limiti, le frustrazioni, e le perdite. Ora l’obiettivo nostro e di Marco è diventato la possibilità di sentirsi ed essere un adulto maturo, sicuro di se stesso e con legami significativi con gli altri.  Noi in fondo è questo che ci aspettiamo e  che speriamo lui possa realizzare.

Nel difficile compito di essere vicini e lontani, o di mantenere la giusta distanza nella relazione terapeutica, penso che la Concezione Operativa di gruppo mi abbia consentito di avere una distanza ottimale nei confronti della situazione descritta, ma soprattutto di essere disponibile a perderla, se il riacquistarla mi può servire per rendere più complesso e ricco il mio Schema di Riferimento.


Alcune riflessioni

Tutto il percorso effettuato da questo bambino e dall’équipe è stato attraversato da meccanismi violenti in cui la “violenza sociale s’infiltra negli interstizi della soggettività” tanto da rendere più forte il meccanismo di segregazione nei confronti del minore.  (Ci serviamo dell’articolo di Marta DeBrasi:Violenza e istituzioni di “Clinica gruppale Clinica Istituzionale”, nella traduzione italiana del 1990 (A.J.Bauleo-M.S.DeBrasi Padova, Il Poligrafo, 1990)

Sarà dai nodi resistenziali nella rete reciproca intergruppale, che dal campo comunitario che la storia di M. rimette in evidenza che cosa stava accadendo. Le ansietà, le resistenze, hanno impedito una comunicazione ed una collaborazione tra soggetti e tra gruppi, tale per cui non è stato possibile centrarsi sui diversi compiti: familiari, istituzionali, comunitari.  Furono pochi i momenti comuni con altri operatori, e soprattutto fu difficile far convergere le nostre differenze tecniche e metodologiche in uno Schema di Riferimento condiviso. Nei diversi ambiti prevalse un’ottica di tipo individuale secondo la quale Marco era il centro di ogni relazione e comunicazione e pertanto il “portavoce”(Pichon-Riviere) dell’ansia gruppale e familiare. Marco diventò sempre più impotente e confuso rispetto al proprio ruolo, finì per assumere un ruolo sempre più passivo ed alienato nei confronti della realtà esterna, finendo per essere anch’esso disperso e frammentato.
Da portavoce del disagio familiare assume significati simbolici rispetto ad un disagio generale che deriva dall’insieme delle relazioni del latente comunitario.

 Nella comunità la latenza sarà determinata da relazioni tra gruppi, da codici verbali e comportamentali che determinano i comportamenti, la comunicazione, ma anche i significati simbolici, ideologici, tecnici, i pregiudizi che caratterizzano la Comunità.   A livello comunitario il clima era espulsivo, così come è stato espulsivo il clima familiare o istituzionale.
Questo clima che ha attraversato i diversi ambiti non dipende dalla volontà dei singoli soggetti, o dalla loro disponibilità, ma dalla struttura che si viene a creare nell’insieme dei legami che si intrecciano in un sistema di gruppi.
Bleger ci stimola a riprendere lo studio  degli individui secondo modelli della psicologia dei gruppi e della comunità, nel senso che la tendenza più radicata è quella di studiare l’individuo isolatamente, e allo stesso modo vengono osservate le famiglie, i gruppi con un’ottica individuale, utilizzando le stesse categorie concettuali. In realtà la sua esortazione va nella direzione opposta: osservare quali sono gli elementi che affiorano dall’ambito comunitario, istituzionale, e quanto questi stessi elementi sovradeterminano il comportamento di un individuo. Pertanto bisogna tener presente, anche quando ci si occupa di un individuo di non “considerare unicamente, specificatamente e prevalentemente i fattori patogeni a livello individuale, valutando invece situazioni generali della comunità”.  
(J.Bleger,Lo psicologo nella Comunità, Psicoigiene e Psicologia Istituzionale, Lauretana 1989,AN)

Ogni difficoltà, o parte negativa veniva depositata su Marco, senza che si potesse considerare la struttura, i legami tra le persone, le cose,le situazioni : insieme strutturale di legami  che favoriscono o possono ostacolare il processo di integrazione e di identità. La sua precedente esperienza in un altro paese, la sua modalità di relazionarsi agli altri, i suoi modi personali di interagire, se hanno un senso ed un significato nel paese d’origine, qui, in Italia in una cittadina di provincia assumono un senso ed un significato totalmente diverso e talvolta interpretato come una psicopatologia del soggetto.
Tutti i problemi e le carenze sono attribuite ad un soggetto, senza vedere che all’altro polo della relazione dialettica c’è qualcun altro o qualcos’altro: forse un’emozione, forse un rimpianto, forse una nostalgia o qualcosa che non può uscire  o non può essere reso esplicito immediatamente.

Credo che forse il desiderio della comunità fosse quella di aspettarsi da lui lo stesso comportamento che avrebbe avuto un bambino “ideale”. Alla tolleranza dei primi periodi fece seguito una sempre maggiore segnalazione delle differenze, delle mancanze, delle negatività, della impazienza. Non c’era tempo per aspettare, per riflettere, farsi una idea o avere il tempo perchè un processo si mostri e si riveli.
Come si affrontano le differenze, senza ricadere in un ottica biologistica o senza rinchiudere queste stesse differenze all’interno di un giudizio o di una diagnosi più o meno attuale?

Quanto corriamo il rischio, noi, come operatori, di essere compressi noi stessi dalle esigenze lavorative e dalle nostre pratiche, da non rendere il nostro ECRO più flessibile, o di limitarci ad un confronto superficiale con i cambiamenti sociali e culturali che così prepontemente entrano nel nostro lavoro?
Se c’è diversità, come in questo caso, come si creano dei legami tra le caratteristiche individuali, il contesto di origine e il sistema culturale sociale in cui un soggetto si inserisce?.
In questo incontro tra soggetto ed oggetto, dove la trasformazione è reciproca, come  pensiamo si possa collocare il nostro intervento?

La presenza di questo bambino,oggi giovane adulto, allora bambino straniero ed estraneo alla nostra comunità, aveva attirato su di sé molti pregiudizi, immagini collettive distorte o deformate dallo stesso incontro di questi due mondi: quello della città e quello di Marco.   
Ciò che guida i nostri interventi e ci consente di lavorare è lo Schema di Riferimento Operativo (E:C:R:O ) e per questo avevamo imparato ad applicare un setting che permettesse alla famiglia di affrontare dubbi, paure, ambivalenze, conflitti; ma parallelamente il bambino fu collocato fuori dalla famiglia, nel contesto comunitario. In un primo tempo attraverso le richieste molteplici della famiglia a servizi, specialisti, amici, parenti;  successivamente Marco divenne il depositario delle ansietà non elaborate della famiglia .(E. Pichòn-Riviere 1960)
Questo processo avvenne in famiglia e parallelamente all’interno della Comunità. Fu in tal senso che i diversi gruppi formali ed informali che compongono la comunità contribuirono a mettere in atto meccanismi di emarginazione e di esclusione sociali.
I ruoli dei genitori erano crollati: chi doveva controllare chi? Marco era diventato libero di andare, fare ciò che voleva, compreso  mettersi nei guai: così dopo si poteva tranquillamente dire :” hai visto cosa ha combinato?”            

Noi operatori del materno-infantile ci rendevamo conto che non riuscivamo a contenere in un setting tutti quegli elementi che venivano proiettati in maniera indiscriminata ovunque. Le ansietà in gioco, i fantasmi riattualizzati dal doloroso processo di integrazione producevano come effetto molti malintesi e fraintendimenti tra il bambino e la famiglia, tra la famiglia ed i vari operatori coinvolti, tra la famiglia e i cittadini della comunità, contesto di questa scena .
Al tempo stesso ci sentivamo attraversati da sentimenti di ansietà per non riuscire ad instaurare un dialogo con la famiglia, né con gli altri operatori.
Anche la famiglia, che pure veniva regolarmente ai colloqui, era in grande tensione, disorientata, confusa, vittima essa stessa di un desiderio generico e indiscriminato di dare una famiglia ad un bambino che non l’aveva, confondendo il piano di disponibilità generica ad una qualche forma di aiuto, con ciò che significa formare una nuova famiglia .
Come già in altri casi mi è capitato di osservare, spesso tutti sottovalutiamo l’impatto che l’inserimento di un bambino straniero, anche se piccolo, può avere nella morfologia del nuovo territorio per le conseguenze che questo può avere per se stesso e per le altre persone che contribuiscono a caratterizzare quel contesto specifico.
La Psicologia degli Ambiti, così come delineata da Bleger ci permette di considerare che forse le istituzioni o la comunità possono contribuire a mitigare certi problemi che sorgono nella famiglia, oppure viceversa, la famiglia, o, in sua vece, la comunità può trovare nuovi modi per favorire e sostenere il processo di identità.


BIBLIOGRAFÍA

-A.J. Bauleo-M.S.Be Brasi, Clinica gruppale Clinica Istituzionale, Padova,  Il Poligrafo 1994
-A.J.Bauleo, Notas de psicologia e psiquiatria Social, Buenos Aires, Actuel, 1988              
-A.Bauleo,Psicoanalisi e gruppalità, Roma, Borla, 2000
-J.Bleger, Psicoigiene e Psicologia Istituzionale,Loreto, Lauretana, 1989
-E.Pichòn-Rivière, Il processo gruppale, Loreto, Lauretana, 1985 
-W.Bion , Apprendere dall’esperienza,Roma, Armando, 1972

 

 

 

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